43º anniversario dell’incidente di Ustica; se ne può parlare sotto una nuova inedita luce, che non sia il solito confronto/scontro sulle cause della tragedia?
Nel gennaio 1981 quando la Commissione di Inchiesta nominata dal Ministro dei Trasporti era ancora all’opera e quindi nulla si sapeva sulle cause della sciagura aerea di Ustica, a furor di popolo, alla compagnia aerea Itavia veniva revocata la licenza di volo costringendola in pratica a chiudere i battenti.
Fu una decisione improvvida e ingiustificata che mise sulla strada oltre mille lavoratori e che non aveva ragion d’essere dal momento che non si può prendere una decisione del genere basandosi sul “sentito dire”, su fuga di notizie, o titoli clamorosi dei media.
Quasi a voler esorcizzare una tale vergognosa decisione, tutto il dibattito che si è trascinato nel corso di anni e decenni ha tralasciato di trattare questo di certo, non insignificante particolare, per accentrarsi invece -come tutti gli italiani ben sanno- sul perché è accaduto l’incidente, ovvero l’italico dilemma bomba o missile che a questo punto, ci sentiamo di dire, proseguirà fino alla fine del mondo.
ma è proprio partendo da quest’ultima constatazione che qualunque persona dotata di buon senso si
sarebbe dovuta chiedere: "ma se ancora si discute sulla causa, perché la compagnia è stata chiusa?"
Ecco, questa è una domanda assolutamente sensata la quale però, forse perché tale, non è stata mai affrontata.
Nel nostro bel paese si preferisce sempre, per dirla alla romana, metterla in caciara, sollevare polveroni, dibattere all’infinito guardandosi bene dall’affrontare però temi concreti e risolutivi.
Per quanto ci riguarda, noi siamo convinti che a bordo del DC9 sia esploso un ordigno situato nella zona toilette e abbiamo scritto anche libri in merito, ma in questa sede non intendiamo riproporre una discussione sulle cause della sciagura - come avviene ogni 27 di giugno, da oltre quarant’anni - vogliamo piuttosto soffermarci sulla chiusura della compagnia facendo notare come proprio partendo dai dibattiti che ancora si susseguono, la compagnia Itavia avrebbe dovuto continuare ad operare: nella centenaria storia della aviazione civile mondiale non è mai avvenuto che una compagnia aerea fosse stata chiusa d’autorità a causa di un incidente causato da un atto illecito contro l’aeromobile: quello che in gergo viene definito un unlawful act against the aircraft.
Itavia quindi non doveva chiudere, un fatto questo che non abbiamo mai trovato scritto in alcun testo che
ha trattato di Ustica.
Ma in base a quali ragioni il nostro Parlamento prese questa decisione?
L’Itavia era nel 1979/1980 la seconda compagnia aerea italiana e aveva dato la possibilità a molte città della penisola, in tempi in cui la Ryanair di Michael O’Leary e la sua scoperta degli scali dimenticati ancora doveva veder la luce, di far uso del mezzo aereo al posto dei collegamenti di superficie, molti dei quali lasciavano decisamente a desiderare.
La chiusura della compagnia si è consumata nell’ambito della VIII legislatura, durante i governi di Francesco Cossiga (governo “due”, 4 aprile-18 ottobre 1980) e del successivo governo Forlani (18 ottobre 1980-28 giugno 1981).
In entrambi questi governi il titolare del Ministero dei Trasporti era Rino Formica del Partito Socialista Italiano.
Certo, se la affrettata decisione presa sull’onda emotiva avesse riguardato un minuscolo vettore, ultimo arrivato sulla scena, con pochi dipendenti e la solita striminzita flotta che distingueva tante aerolinee di quegli anni, un provvedimento così drastico si sarebbe senz’altro potuto accettare; ma il fatto era che Itavia nell’Italia aeronautica di fine anni settanta rappresentava una concreta realtà, il secondo vettore in termini di numero passeggeri trasportati e poi, soprattutto, non è certo il Parlamento il luogo ideale per disquisire sulle cause di una sciagura aerea, trarne affrettate conclusioni e giungere al verdetto di chiusura nel giro di poche settimane dall’evento, quando corpi e relitto giacevano ancora in fondo al mare e nessuno poteva dire per quale motivo quel DC9 fosse finito nella fossa del Mar Tirreno a 3400 metri di profondità.
L’improvviso verdetto di sciogliere la compagnia, non sembri esagerato, ci ha sempre fatto tornare in mente un ricorrente tema dei film western quando con troppa faciloneria e dimenticando il dovuto passaggio di condurre una meticolosa indagine, si passava una corda attornno al robusto ramo di un albero e si procedeva alla esecuzione di un presunto assassino.
Nel clima spartano e selvaggio che caratterizzava gli anni di “c’era una volta il west”, lasciarsi trascinare dalla febbre di una sommaria giustizia era purtroppo qualcosa di abituale, decisamente inaccettabile però in un Paese dell’Europa in prossimità dell’anno duemila.
Paradossalmente su questa del tutto superficiale e sbrigativa decisione davvero pochi hanno avuto qualcosa da eccepire, basterebbe rileggersi i verbali delle discussioni parlamentari per averne conferma, mentre invece non sono bastati anni e decenni per far spegnere la sterile polemica sul dilemma bomba/missile.
Quindi, sull’argomento causa della sciagura, fatto questo che spettava solo ai tecnici chiarire, dibattiti infiniti che si trascinano ancora ai nostri giorni; sulla decisione di chiudere la compagnia, fatto questo di concreta competenza del Parlamento e del Ministero Trasporti, nessun dibattito, nessun dubbio e all’improvviso oltre mille persone perdevano il loro posto di lavoro.
In queste acrobazie di inosservate competenze è racchiuso il dilemma sulla tragica fine della compagnia Itavia.
Noi non abbiamo alcun dubbio che in un altro paese meno propenso alla giustizia sommaria, la compagnia sarebbe rimasta operativa anche dopo la sciagura di Ustica.
Complici di questa decisione una campagna stampa denigratoria basata su presunte rivelazioni di “gole profonde” sempre prese per buone perché servivano ad alimentare il sempre redditizio fuoco della polemica.
Indubbiamente la “spettacolarizzazione” rende sempre in termini di auditel o di copie vendute.
Una cosa oggi la possiamo affermare con assoluta certezza: il volo IH870 non è precipitato nel mar Tirreno per un errore umano dell’equipaggio, né per un guasto tecnico al velivolo, né perché quel DC9 era una carretta del cielo, pertanto non sussisteva alcuna ragione per ritirare la licenza al vettore e sospenderne l’attività.
Queste assurde decisioni sono state prese da governanti che anziché attendere l’esito delle indagini tecniche hanno preferito dare credito ai chiacchiericci da salotto, ai titoli gonfiati che i media dedicavano all’argomento.
Ma il colmo dell’assurdo si è raggiunto allorché imboccata la strada dell’attentato, dell’atto ostile contro l’aeromobile nemmeno allora si è alzata una qualche voce per ammettere o chiedersi se si fosse sbagliato a chiudere la compagnia.
Nell’anno 1972 nel giro di pochi mesi, aerei del gruppo Alitalia incapparono in ben tre incidenti mortali: ad aprile un Fokker 27 precipitava sulle montagne in località Amaseno, 15 passeggeri e tre membri di equipaggio perdevano la vita; a maggio un DC8 impattava il crinale di Montagnalonga, nei pressi di Palermo causando la morte dei 115 occupanti a bordo; ad ottobre un altro Fokker 27 precipitava in località Poggio Bianco causando la morte di tutti i 27 a bordo.
157 morti in tre incidenti ravvicinati ma nessuno al Parlamento sollevò la questione se fosse il caso di avviare una indagine sullo stato di sicurezza della maggiore compagnia italiana.
Non solo, ma ancor prima di giungere al giugno 1980 (mese dell’incidente di Ustica) Alitalia incorrerà ancora in altri incidenti fatali nel 1978 e nel 1979 che provocheranno altre 139 vittime.
Nuovamente, nessun interrogativo sollevato sullo stato di sicurezza del vettore.
In quei pur gravi casi i riflettori vennero puntati sul carente stato delle radioassistenze e della rete aeroportuale italiana.
Ma quando avvenne l’incidente di Ustica e la troppo frettolosa chiusura della compagnia, forse ricordando questi precedenti di Alitalia ci fu chi avanzò l’ipotesi che Itavia dava fastidio alla compagnia di bandiera, così come pure vi fu chi fece presente che i due differenti trattamenti derivavano dal particolare che Alitalia era una compagnia pubblica, Itavia una compagnia privata.
Una cosa comunque è certa ed oggi lo possiamo affermare con certezza: Itavia non doveva chiudere.
Antonio Bordoni
fonte air-accidents.com